Perchè soffriamo?

Perchè soffriamo?

Il linguaggio nascosto della nevrosi


Introduzione: la domanda che non smette di bussare

Oggi voglio farvi conoscere un po’ Jung, uno

dei grandi geni e maestri del secolo scorso.

C’è una domanda che ci accompagna da sempre, dalle prime forme di filosofia fino alle sedute di psicoterapia contemporanea: perché soffriamo?
La sofferenza è molto di più di una semplice sensazione spiacevole che vorremmo evitare. Intanto certo è importante partire dal fatto che è una sensazione. Qualcosa che ci sconvolge, dis-regola il nostro stato psicofisico, che vorremmo sparisse subito e sopratutto ci lascia una percezione profonda di mancanza di fiducia nel nostro corpo ed in noi stessi. Si potrebbe definire un enigma che attraversa la nostra vita e ci costringe a fermarci, a interrogarci, a cambiare.
I miti antichi la raffiguravano come destino inevitabile (pensiamo alla tragedia greca), le religioni come via di purificazione o prova spirituale, la prova estrema di Gesù sulla croce. Per il Cristianesimo è fonte (mezzo) di salvezza, la filosofia come condizione della libertà e della coscienza. La psicologia moderna, infine, l’ha interpretata come segnale di un conflitto interiore irrisolto, come linguaggio del nostro inconscio, le nuove discipline sulla de-traumatizzazione, come l’attivazione di una memoria traumatica che scaturisce in un pattern somatopsichico
Il filosofo e psicoanalista Carl Gustav Jung ha dedicato gran parte del suo lavoro a questa domanda. Per lui la sofferenza, quando non distrugge, può diventare un varco verso la trasformazione. Ma per accedere a quel varco dobbiamo imparare a leggere il suo linguaggio nascosto: il linguaggio della nevrosi, dei sintomi, dei sogni, delle paure che ci abitano. Jung aveva intuito ciò che oggi è una certezza, il nostro cervello è una macchina narrativa, sviluppa una funzione, la mente per raccontarci spiegazioni, è un cantastorie. Tutto quello che accade nel corpo, lui, deve darci immediatamente un significato mediante pensieri che spieghino l’accaduto, per un non perdere la propria autorevolezza, la percezione che la nostra identità, ciò che noi siamo dipenda esclusivamente da Lei, la mente (intelletto per Kant). La mente è la nostra salvezza, mediante i pensieri ci aiuta a tenere in vita il nostro corpo, nell’equilibrio costante della relazione con l’ambiente e con gli altri simili, ma può diventare anche il nostro peggior carceriere, producendo racconti che alimentano in un loop le nostre nevrosi.

1. Cos’è la nevrosi?
La parola “nevrosi” deriva dal greco neuron (nervo) e osis (malattia, alterazione). In senso clinico, indica un disturbo psichico che non compromette il contatto con la realtà (come avviene invece nella psicosi), ma che provoca sofferenza interna, ansia, ossessioni, sintomi fisici senza una causa organica evidente.
Oggi il termine è meno usato in psichiatria, sostituito da categorie più specifiche (disturbi d’ansia, ossessivo-compulsivi, somatoformi, ecc.), ma rimane fondamentale nel linguaggio psicoanalitico e filosofico.
Per Jung, la nevrosi non è una “malattia da curare”, ma un messaggio dell’anima. È il segno che qualcosa dentro di noi non è integrato, che viviamo in squilibrio tra ciò che siamo davvero e ciò che vorremmo (o crediamo di dover) essere.

2. Il concetto di ombra in Jung
Uno degli apporti più rivoluzionari di Jung è il concetto di ombra.
L’ombra è l’insieme di tutti quegli aspetti della nostra psiche che rifiutiamo di vedere, perché li giudichiamo inaccettabili, vergognosi, minacciosi.
Possono essere tratti negativi: aggressività, invidia, egoismo.

Ma anche potenzialità positive che non riconosciamo: creatività, sensualità, forza, libertà.
I tratti negativi, lo sono in quanto mettono in discussione la nostra natura sociale e quindi diventano pericolosi perché eterodistruttivi ed autodistruttivi. Le neuroscienze contemporanee hanno dimostrato che questi in realtà sono delle reazioni automatiche che si manifestano a causa di disrelogazioni corporee, dovute a memorie traumatiche. Il problema è che “il dolore acceca la mente” come diceva il Buddha o se preferite, il protagonista del film Dune, nel vero senso della parola: spegne i lobi frontali del cervello, con moltissimi funzioni fondamentali alla relazione con gli altri, alla percezione di giusto e sbagliato, al ragionamento ecc. https://it.wikipedia.org/wiki/Lobo_frontale
Quando non vogliamo affrontare l’ombra, essa si manifesta attraverso sintomi nevrotici, sogni perturbanti, relazioni complicate, ansie senza oggetto. In altre parole: la sofferenza è il modo in cui l’ombra ci chiede di essere vista.
Jung scriveva: “Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma rendendo consapevole l’oscurità.”

3. La sofferenza come linguaggio
Ogni sintomo è un simbolo.
L’ansia che ci blocca, il panico improvviso, l’insonnia che ci tiene svegli, non sono semplici “disturbi” da eliminare. Sono parole del corpo e dell’anima. perché sono memorie sepolti dei nostri traumi ed è attraverso di essi che noi abbiamo costruito l’universo di senso della nostra vita e la nostra personalità
La sofferenza parla una lingua antica, fatta di immagini, emozioni, archetipi.
Un attacco di panico, ad esempio, può essere la voce interiore che grida: “Stai vivendo una vita che non è la tua!” o quel bambino non è stato semplicemente abbracciato e calmato di fronte all prima volta che ha provato paura e si è sentito solo, in mille pezzi di fronte allo sconosciuto del mondo
L’insonnia può sussurrare: “C’è un pensiero che rimuovi di giorno, ma che ti cerca di notte”.
L’ansia cronica può dirci: “Stai correndo per soddisfare aspettative che non ti appartengono”.
Se smettiamo di considerare la sofferenza come un “errore da correggere” e iniziamo a vederla come un messaggio da decifrare, allora essa diventa occasione di conoscenza.

4. Le radici archetipiche del dolore
I miti e le fiabe ci insegnano che la sofferenza è parte del viaggio umano:
Prometeo che viene incatenato e tormentato dall’aquila rappresenta la condanna della conoscenza non integrata, probabilmente non finalizzata ad uno scopo evolutivo.

Orfeo che perde Euridice ci ricorda che l’amore e il desiderio sono sempre intrecciati alla perdita. Desidero profondamente ciò che non credo di possedere, ciò che non credo di essere (Lacan) nel mio parlarvi c’è ad esempio il desiderio di salvarci dall’estinzione e diventare figlio di Dio, come fece l’uomo Gesù

Chirone, il centauro ferito e immortale, diventa simbolo dell’“eroe ferito” che guarisce gli altri attraverso la propria ferita. di nuovo la salvezza eterna.

Ogni mito parla della nostra interiorità. La nevrosi non è altro che il mito personale che stiamo recitando senza rendercene conto.

5. Neuroscienze e psicologia: il corpo che parla
Le neuroscienze contemporanee, con autori come Antonio Damasio e Giacomo Rizzolatti, confermano che le emozioni non sono optional, ma radici della coscienza.
Damasio mostra come i marcatori somatici (reazioni corporee inconsce) guidino le nostre decisioni.

Rizzolatti e i neuroni specchio dimostrano che il nostro cervello è strutturalmente empatico: soffriamo perché siamo connessi.

Questo significa che la sofferenza non è un difetto, ma una modalità con cui il cervello e il corpo ci aiutano a ritrovare un equilibrio.

6. Imparare ed allenarsi.
quando percepiamo un segnale di disregolazione, lo sono anche pensieri ossessivi e giudicanti nei confronti di noi stessi e non c’è un reale pericolo di vita immediato, vuol dire che si è attivata una memoria corporea di un trauma, l’amigdala si è attivata, siamo in configurazione allerta. Allora proviamo a non reagire immediatamente, ma iniziamo ad allenare il cervello a notare e non giudicare cosa ci sta accadendo. Osserviamo quello che sta accadendo nel nostro corpo e quali sono i pensieri che che formuliamo nella nostra testa. Questa semplice azione, non è facile da realizzare, ma basta cominciare per innescare un grande cambiamento, come un allenamento in palestra o alla corsa. Così iniziamo a spostare la nostra percezione dalla mente e dalla sua identificazione, a quella parte che invece osserva, il Dio interiore per gli gnostici, il terzo occhio per i buddisti e così via. Ecco perché la sofferenza ci libera, perché ci permette di cominciare il processo di osservazione in modo da distaccarci dalle nostre parti reattive.

7. Perché soffriamo?

Possiamo riassumere:

  • Soffriamo quando non viviamo in accordo con la nostra verità.

  • Soffriamo quando reprimiamo l’ombra.

  • Soffriamo perché siamo esseri narrativi, e senza un senso la vita diventa intollerabile.

  • Soffriamo perché siamo connessi, e il dolore dell’altro diventa anche il nostro.
  • Soffriamo perché abbiamo tutti dei traumi memorizzati nel nostro corpo che il cervello riattiva e andiamo in allerta, disregolandoci
    Ma soprattutto: soffriamo perché la sofferenza è la maestra della trasformazione. Ci porta dove non vorremmo guardare, ma dove si trova il seme della nostra evoluzione.

8. Come dialogare con la sofferenza:

esercizio pratico


Per trasformare la sofferenza da nemico a guida, è necessario imparare ad ascoltarla.
Esercizio: Dialogo con la propria paura
Trova un luogo tranquillo, carta e penna.

Scrivi in alto: “Paura, voglio parlarti.”

Lascia che la tua paura risponda, come se fosse un personaggio. Scrivi senza censura.

Alterna le voci: tu chiedi, la paura risponde.

Continua finché senti emergere un messaggio nuovo.

👉 Questo esercizio aiuta a riconoscere la paura come parte di te, non come nemico esterno. Spesso scoprirai che la paura custodisce una risorsa o un bisogno autentico che hai ignorato.

9. Un cammino di integrazione
Affrontare la nevrosi non significa eliminarla, ma trasformarla in conoscenza.
La guarigione non è assenza di ferite, ma capacità di vivere con esse in modo consapevole.
Il dolore diventa allora iniziazione, la nevrosi diventa linguaggio, e l’ombra diventa alleata.

Conclusione: la ferita come soglia
Alla fine, la domanda “Perché soffriamo?” non trova mai una risposta definitiva, ma ci apre a una consapevolezza: soffriamo perché siamo vivi, perché amiamo, perché desideriamo.
La sofferenza ci spinge a cercare senso, e in quella ricerca scopriamo noi stessi.
Come scriveva Jung: “La nevrosi è spesso il soffrire di un’anima che non ha trovato il suo senso.”

Il Corpo come specchio dell’Anima

Il Corpo come specchio dell’Anima

Il corpo come specchio dell’Anima

Apr 2025

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Introduzione: un confine tra visibile e invisibile

Quando diciamo che il corpo è lo “specchio dell’anima”, stiamo evocando un’immagine, con una metafora potente: l’idea che la nostra fisicità – fatta di muscoli, pelle, postura, espressioni – rifletta fedelmente ciò che accade nella dimensione interiore, più sottile e misteriosa, ma in che senso?.

Quì si tratta di andare oltre ai molti contesti religiosi e spirituali, in cui il corpo è stato tradizionalmente considerato un involucro dell’anima, talvolta perfino un ostacolo al suo libero fluire; ma negli ultimi decenni, grazie all’apporto di discipline come, le neuroscienze e la psicologia del profondo, abbiamo compreso quanto sia stretto il legame tra fisicità ed esperienza soggettiva, anche molti filosofi a partire dalla Fenomenologia hanno teorizzato sull’argomento.

Se poniamo la domanda: “In che modo il corpo rispecchia l’anima?”, non ci riferiamo soltanto alla comunicazione non verbale o al linguaggio del volto. Tocchiamo invece l’essenza di una ricerca che attraversa la filosofia (da Platone a Husserl, da Nietzsche a Merleau-Ponty), la psicologia (da Freud a Jung, fino a Gabor Maté), la neurofenomenologia (Damasio, Varela, Gallese) e molte altre discipline. Nel corpo si annidano segreti, memorie, impulsi e desideri: a volte emergono come tensioni muscolari croniche, come sintomi psicosomatici o come posture che raccontano storie antiche. Altre volte, si esprimono in maniera sottile, con una sensazione di apertura e vitalità quando ci sentiamo in armonia con noi stessi o, al contrario, con un senso di pesantezza e rigidità quando viviamo stati di disagio profondo. I recenti studi di psicotraumatologia connessi alle neuroscienze stanno provocando un cmbio radicale di Paradigma.

Questa interrelazione ha un impatto concreto sulla nostra vita quotidiana: pensiamo soltanto all’inquietudine che si manifesta con un nodo allo stomaco, all’energia dirompente che sentiamo quando siamo entusiasti di un nuovo progetto, oppure alla sensazione di “spegnimento” quando subiamo un trauma non elaborato.

Non si tratta di pura e semplice retorica: ma ci troviamo di fronte ad un vero e prioprio nuovo saper fondato su basi filosofiche e scientifiche solide che dimostrano come la mente e il corpo siano aspetti di un’unica unità e non due realtà separate.

Partendo da questa affermazione metaforica,  esploreremo come questo specchio funzioni a livello concettuale, ma anche pratico. Vedremo come la filosofia fenomenologica di Merleau-Ponty e Heidegger abbia posto le basi per una comprensione incarnata dell’esperienza; come la neurofenomenologia di Damasio e Gallese riconosca nel corpo il luogo primario in cui emozioni e pensieri prendono forma; e come la psicologia del trauma, con autori come Bessel van der Kolk e Gabor Maté, abbia mostrato l’importanza di ascoltare i segnali corporei per guarire ferite emotive anche molto antiche. Infine, ci soffermeremo sul potere simbolico del corpo e su come pratiche come la scrittura creativa, la danza e la meditazione possano favorire un dialogo autentico tra ciò che siamo “dentro” e ciò che manifestiamo “fuori”.

2. Radici filosofiche: dal dualismo cartesiano alla prospettiva fenomenologica

 

2.1 Cartesio e il dualismo mente-corpo

In Occidente, una radice del problema nasce dal dualismo cartesiano. René Descartes (Cartesio) distingueva la res cogitans (il pensiero, la mente) dalla res extensa (la materia), collocando la coscienza in un dominio separato e privilegiato rispetto al corpo, considerato quasi alla stregua di una macchina. Questa concezione ha influenzato la medicina, la psicologia e la filosofia per secoli, portando a trascurare la dimensione incarnata dell’esperienza. Se la mente è altro rispetto al corpo, se è la sola vera “essenza” dell’uomo, allora il corpo può essere “aggiustato” e analizzato come un oggetto qualsiasi, senza dover tener conto delle risonanze psichiche ed emotive.
Tuttavia, questo modello si è rivelato limitante, specialmente quando si è trattato di spiegare i fenomeni emotivi, la percezione sensoriale e l’influenza delle esperienze traumatiche sullo sviluppo psichico. La rigidità del dualismo impediva di cogliere il legame profondo tra l’esperire corporeo e il vissuto soggettivo, lasciando nell’ombra una serie di dinamiche che invece oggi la ricerca ci mostra in tutta la loro evidenza.

2.2 La svolta fenomenologica

Con Edmund Husserl e, successivamente, con Martin Heidegger e Maurice Merleau-Ponty, la filosofia inizia a mettere in discussione l’idea di una mente separata dal corpo. Husserl, in particolare, introduce il concetto di Leib (corpo vissuto) contrapposto a Körper (corpo oggettivato).  sviluppato poi dal suo allievo Merleau-Ponty. Il corpo, secondo lui, non è soltanto una massa biologica: è il luogo dove l’esperienza prende vita, l’organo della percezione e dell’intenzionalità. Quando guardiamo il mondo, lo facciamo sempre attraverso un corpo che sente, che si muove, che è nello spazio. Non ci sono “due sostanze” ma un’unità incarnata che vive, sente, percepisce e progetta.
Heidegger, dal canto suo, introduce il concetto di Dasein, l’essere-nel-mondo, sottolineando che la nostra esistenza è sempre situata in un contesto e che non siamo soggetti isolati che osservano passivamente gli oggetti. Siamo già coinvolti, immersi, “gettati” in un mondo di relazioni e significati. Il corpo, in questo senso, diventa ciò grazie a cui possiamo avere una relazione col mondo, ma anche col nostro mondo interno. Attraverso il corpo si esprime la nostra “cura” ,allo stesso tempo sorge la nostra ansia, la nostra gioia e il nostro slancio vitale.

2.3 Il corpo come sede di verità esistenziali

Questa prospettiva fenomenologica ci porta a concepire il corpo come uno specchio, non nel senso di una riflessione passiva, ma come un luogo in cui appaiono le verità più profonde della nostra condizione umana. Se siamo ansiosi, il corpo manifesta tachicardia, sudorazione, tensioni muscolari; se siamo sereni, si esprime con rilassamento, respiro fluido e movimenti armonici. E soprattutto, se portiamo un trauma o un disagio radicato nel nostro vissuto, il corpo lo mostra spesso prima ancora che la mente ne sia consapevole, oggi dimostrato ampiamente dagli studi neuroscientifici.
Da qui l’idea che il corpo non sia semplicemente un “vestito” dell’anima, ma lo spazio attraverso cui l’anima – intesa come identità profonda – si rivela. Ogni postura, ogni tensione, ogni blocco può essere letto come un simbolo, un messaggio che ci parla di esperienze passate, di timori futuri, di desideri inconfessati. Il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset diceva: “Io sono io e la mia circostanza”. Possiamo aggiungere: “Io sono io e il mio corpo”, perché senza di esso l’esistenza, così come la conosciamo, non sarebbe nemmeno concepibile.

3. Il contributo delle neuroscienze: corpo ed emozioni

 

3.1 Antonio Damasio e i marcatori somatici

Una delle voci contemporanee più rilevanti nel sottolineare l’unità mente-corpo è quella di Antonio Damasio. Nel suo libro L’errore di Cartesio (Descartes’ Error), Damasio critica apertamente la scissione tra ragione ed emozione, mostrando come i processi emotivi – ancorati al corpo – siano fondamentali per il ragionamento e la presa di decisioni. I cosiddetti “marcatori somatici” sono segnali fisiologici (accelerazione cardiaca, tensione muscolare, cambiamenti ormonali) che il cervello utilizza per dare una direzione alle scelte. Quando siamo davanti a un dilemma, il corpo anticipa la reazione emotiva e ci dà un input che poi la mente razionale elabora.
Questo significa che non possiamo separare nettamente la sfera razionale da quella corporea: il corpo è parte integrante del nostro modo di pensare. Quando Damasio parla di “sentire ciò che accade”, intende che la coscienza non è un puro atto intellettivo, ma un processo incarnato, in cui percepire le modificazioni del proprio stato corporeo è centrale per comprendere il mondo e per agire in esso.

3.2 Vittorio Gallese e i neuroni specchio

Un altro contributo significativo è quello di Vittorio Gallese, noto per essere tra gli scopritori dei neuroni specchio. Questi neuroni si attivano nel nostro cervello sia quando compiamo un’azione sia quando la vediamo compiere da altri. La scoperta ha rivoluzionato la concezione dell’empatia: non comprendiamo l’altro per via puramente concettuale, ma attraverso un processo di simulazione incarnata. Il mio corpo “rispecchia” il tuo, attivando internamente le stesse aree motorie e affettive.
Se ci pensiamo, si tratta di un’ulteriore prova che il corpo è uno specchio: non solo di noi stessi, ma anche degli stati emotivi altrui. Quando vediamo una persona triste, i nostri neuroni specchio attivano in noi una sorta di “tristezza potenziale”, che ci permette di entrare in risonanza con l’altro. Questa capacità empatica è alla base della connessione sociale, e si fonda su un meccanismo corpo-corpo prima ancora che mente-mente.

3.3 Neurofenomenologia e percezione incarnata

Il termine “neurofenomenologia” è stato coniato da Francisco Varela, e indica un approccio che integra la scienza del cervello con la fenomenologia. L’idea centrale è che per capire la coscienza dobbiamo guardare non solo ai meccanismi neurali, ma anche all’esperienza vissuta dal soggetto. Il corpo, in quanto sostrato dell’esperienza, diventa indispensabile. La fenomenologia ci insegna che non possiamo ridurre tutto a processi fisici misurabili, ma nemmeno possiamo negare l’importanza del cervello e delle sue reti neuronali. L’interfaccia tra l’esperienza soggettiva e l’oggettività biologica si gioca proprio sul piano corporeo.
Questi studi rinforzano la tesi che il corpo sia un vero e proprio “specchio”, dove si riflette non solo la singola anima, ma anche un campo relazionale più ampio. Ogni volta che sentiamo un’emozione, il corpo la “risuona”, e ciò ci permette di interpretarla e, talvolta, di trasformarla. Senza tale risonanza corporea, saremmo come spettatori distaccati, incapaci di cogliere la profondità del vissuto emotivo.

4. Il corpo come archivio di traumi: dalla psicologia del profondo alle terapie corporee

 

4.1 Il trauma si inscrive nella carne

Quando affrontiamo l’idea che il corpo rispecchi l’anima, non possiamo eludere il tema del trauma. Il trauma psicologico è un evento o una serie di eventi che superano la capacità di elaborazione emotiva dell’individuo, lasciando segni profondi nella sfera psichica. Ma dove si depositano questi segni? La ricerca contemporanea ha dimostrato che la memoria traumatica non è conservata solo nella mente cosciente, ma soprattutto a livello corporeo. Bessel van der Kolk, nel suo famoso libro Il corpo accusa il colpo, mostra come il corpo di una persona traumatizzata tenda a rimanere in uno stato di allerta costante, con livelli di cortisolo sfasati, tensioni muscolari croniche e una serie di alterazioni fisiologiche.
Gabor Maté, medico e autore di Quando il corpo dice no, sottolinea come il trauma, se non elaborato, possa contribuire allo sviluppo di malattie croniche e patologie autoimmuni. Il corpo, insomma, “parla” attraverso il sintomo, esprimendo una sofferenza emotiva che la coscienza non è riuscita a integrare. In questo caso, lo specchio diventa quasi uno “schermo”, su cui si proietta un dramma interiore non risolto.

4.2 Dissociazione e parti corporee negate

Janina Fisher, psicoterapeuta specializzata nel trauma, introduce il concetto di “parti dissociate” della personalità. Quando viviamo un trauma, la mente può frammentarsi in diverse componenti: una parte rimane “adulta” e funzionale, mentre altre parti rimangono congelate nell’orrore o nella paura. Spesso, il corpo manifesta le emozioni di queste parti dissociate attraverso sintomi somatici: dolori, rigidità, sensazioni di estraneità. Se ignoriamo tali segnali, le parti dissociate restano nell’ombra. Se invece le riconosciamo, possiamo iniziare un dialogo interno, integrando ciò che era scisso.
Questo spiega perché in molte terapie si dia importanza non solo alla narrazione verbale dei ricordi, ma anche al lavoro con il corpo. Tecniche come il Somatic Experiencing di Peter Levine o la Sensorimotor Psychotherapy di Pat Ogden mirano a far emergere i vissuti corporei legati al trauma, per sciogliere gradualmente l’energia bloccata e ripristinare un senso di sicurezza.

4.3 Il potenziale di guarigione attraverso il corpo

Se il corpo rispecchia l’anima, può anche favorire la guarigione di ferite emotive. Attraverso esercizi di movimento, respirazione, meditazione e contatto sensoriale, possiamo “riprogrammare” il sistema nervoso autonomo, insegnandogli che non è più necessario reagire con l’allerta costante. Il corpo impara a “fidarsi” di nuovo dell’ambiente, a rilassarsi, a ritrovare un equilibrio. Questo processo di rispecchiamento è bidirezionale: la mente si calma quando il corpo si calma, e il corpo si calma quando la mente si sente più al sicuro.
Molte persone hanno sperimentato che parlare dei propri traumi in terapia può aiutare fino a un certo punto; ma se il racconto resta su un piano puramente cognitivo, senza includere le sensazioni somatiche, il rilascio emotivo può essere limitato. Ecco perché, in un’ottica olistica, si insiste sulla necessità di “incarnare” la guarigione, di permettere al corpo di esprimere rabbia, paura, pianto, tremori, e di trasformare gradualmente tali reazioni in un’esperienza integrata.

5. Simbolismo e narrazione: quando il corpo diventa arte e mito

 

5.1 Archetipi e fiabe

Il corpo può essere letto anche come un testo simbolico. Jungianamente parlando, gli archetipi risiedono nell’inconscio collettivo e si manifestano attraverso miti, fiabe e sogni. Queste storie spesso rappresentano i conflitti e le trasformazioni dell’anima, e il corpo è il primo “attore” di tale dramma. I dolori cronici, le posture ricorrenti, i tic, possono essere interpretati come “personaggi interiori” che vorrebbero raccontarci qualcosa.
Le fiabe, d’altronde, sono piene di metamorfosi corporee: la principessa che si addormenta per cent’anni, il principe trasformato in bestia, la fanciulla che diventa sirena o fiore. Queste metamorfosi simboleggiano passaggi psicologici, ma anche corporei: la pubertà, la scoperta della sessualità, il dolore della separazione, la gioia della rinascita. In un contesto terapeutico, l’uso di storie e archetipi può aiutare a dare forma immaginativa ai vissuti corporei, offrendo una cornice più ampia in cui comprenderli.

5.2 Arte, danza e teatro

In discipline artistiche come il teatro-danza, si lavora proprio sul corpo come linguaggio espressivo dell’interiorità. L’attore, il danzatore, impara a “incarnare” emozioni e stati d’animo, rendendoli visibili all’esterno. L’arte diventa allora un campo privilegiato per osservare come l’anima possa essere “specchiata” sul palco o nella coreografia. Pina Bausch, celebre coreografa, sosteneva che la danza fosse innanzitutto un fatto di emozione, di vissuto corporeo, e non una serie di passi tecnici.
Anche la scrittura creativa, paradossalmente, non è solo un fatto mentale: mentre scriviamo, il corpo reagisce, si contrae in certe scene, si rilassa in altre. C’è un respiro che accompagna le parole, un ritmo cardiaco che varia a seconda dei contenuti emotivi che stiamo evocando. In alcuni laboratori di scrittura terapeutica, si invitano i partecipanti a fare una breve sessione di movimento o di respirazione consapevole prima di scrivere, in modo da favorire una connessione più diretta fra corpo e testo.

5.3 Il valore del rito e della celebrazione

Anticamente, le culture tribali utilizzavano riti collettivi (danze sacre, mascheramenti, canti) per processare emozioni, guarire traumi e celebrare passaggi fondamentali della vita. In questi riti, il corpo aveva un ruolo centrale, perché era considerato il canale preferenziale attraverso cui si poteva comunicare con il divino o con il mondo degli antenati. Oggi, in una società laica e frenetica, queste pratiche sembrano lontane, ma alcune forme di arte performativa e di cerimonie laiche stanno tornando in auge per rispondere a un bisogno di espressione corporea collettiva. Pensiamo a certi festival, a workshop di danza estemporanea o a cerchi di condivisione in cui le persone si concedono di cantare, muoversi e respirare insieme.
In queste esperienze, il corpo diventa allo stesso tempo specchio e canale: riflette lo stato interiore di ciascuno ma, nel dialogo con gli altri corpi, crea un tessuto comune di significati, una sorta di “anima collettiva” che diventa tangibile.

6. Strumenti e pratiche per il dialogo corpo-anima

 

6.1 Mindfulness e meditazione somatica

Una delle pratiche più diffuse oggi per favorire la connessione mente-corpo è la mindfulness. Nella sua forma più semplice, si tratta di portare un’attenzione non giudicante al momento presente, incluse le sensazioni fisiche. Se siamo abituati a stare “nella testa”, la mindfulness ci riporta al corpo, invitandoci a percepire il respiro, la temperatura della pelle, le tensioni muscolari. Con la pratica costante, impariamo a notare i segnali di stress prima che diventino insopportabili, e a coltivare una compassione verso noi stessi che include le nostre zone d’ombra.
La meditazione somatica, invece, approfondisce questo approccio, chiedendo di esplorare in maniera ancora più raffinata le micro-sensazioni che sorgono nel corpo. A volte, un piccolo fastidio alla spalla può nascondere un’emozione specifica o un ricordo che, se accolto, si scioglie. La chiave è la lentezza, l’ascolto profondo e la sospensione del giudizio.

6.2 Focusing e scrittura corporea

Eugene Gendlin ha ideato il Focusing: una tecnica centrata sul “felt sense”, cioè sulla percezione interna di qualcosa che ancora non ha un nome, ma che si avverte come un nodo, un groviglio, un’intuizione vaga. Accogliere questo felt sense con gentilezza può portare a insight inaspettati: il corpo “parla” e, con l’aiuto della mente, possiamo trovare le parole giuste per descrivere cosa stiamo vivendo. È un processo di co-creazione tra corpo e linguaggio, che spesso conduce a trasformazioni emotive e psicologiche profonde.
La scrittura corporea, intesa come l’atto di scrivere prestando esplicita attenzione alle sensazioni fisiche che emergono, è un altro strumento efficace. Invece di scrivere “di getto” solo con la testa, ci fermiamo a sentire come reagisce il cuore, lo stomaco, le mani. Annotiamo anche le pulsazioni, le tensioni e i momenti di sollievo. Così, l’articolo, il racconto o il diario diventano il riflesso non solo di idee, ma di processi corporei in evoluzione.

6.3 Tecniche di rilascio emotivo

Tra i metodi che aiutano il corpo a sciogliere blocchi e tensioni, troviamo il breathwork (respirazione circolare, rebirthing), la bioenergetica di Alexander Lowen e le pratiche di shaking (vibrazione spontanea del corpo). L’obiettivo comune è sempre sbloccare l’energia stagnante e consentire al corpo di esprimere liberamente ciò che ha trattenuto. Spesso, questi processi evocano pianto, rabbia, risate improvvise: segnali di un “riassestamento” interno.
Quando ciò avviene in un contesto sicuro e accompagnato, la persona può sperimentare una maggiore chiarezza e una leggerezza emotiva, come se avesse finalmente concesso al proprio corpo di mostrare ciò che a livello conscio non riusciva a gestire.

7. Il corpo come specchio delle relazioni e della società

 

7.1 Il contesto culturale: performance e burnout

Viviamo in una cultura che, spesso, riduce il corpo a un oggetto da prestazione e da consumo: l’estetica, il fitness, l’ossessione per la dieta, la necessità di mostrarsi perfetti sui social media. L’anima, intesa come dimensione profonda del sé, rischia di essere offuscata dai parametri di efficienza e di apparenza. Byung-Chul Han parla della società della stanchezza e della performance, in cui l’essere umano si auto-sfrutta per raggiungere standard irrealistici. In un tale scenario, come può il corpo diventare specchio dell’anima, se è costantemente forzato a rispondere a criteri esterni?
Spesso, la risposta è che il corpo “cade” in un malessere diffuso: ansie, depressioni, malattie psicosomatiche, burnout lavorativo. È il grido dell’anima che chiede spazio, che rivendica la propria soggettività, la propria genuina espressività. Non possiamo ignorare questo grido: va ascoltato e accolto, possibilmente prima che sfoci in situazioni estreme o in patologie croniche.

7.2 Famiglia, società e trauma collettivo

Anche il contesto familiare e sociale influenza il modo in cui il corpo rispecchia la nostra interiorità. Le costellazioni familiari, sviluppate da Bert Hellinger, pur con le dovute cautele, sottolineano come certe dinamiche di colpa, segreti, lutti non elaborati possano trasmettersi da una generazione all’altra, manifestandosi sotto forma di malesseri corporei, depressione o difficoltà relazionali. Si tratta di eredità emotive che il corpo raccoglie e, in un certo senso, mette in scena.
Le società che hanno vissuto eventi traumatici collettivi – guerre, catastrofi naturali, genocidi – portano nel tessuto sociale una ferita che si rispecchia nei corpi dei singoli. Pensiamo ai disturbi post-traumatici dei veterani di guerra, oppure ai malesseri psicosomatici diffusi in popolazioni colpite da terremoti o altre calamità. Il corpo è specchio non solo dell’anima individuale, ma anche di un inconscio collettivo, di memorie transgenerazionali che emergono nella fisiologia di chi, magari, non ha vissuto direttamente quegli eventi.

7.3 La dimensione politica della consapevolezza corporea

Essere consapevoli del fatto che il corpo rispecchia l’anima significa anche diventare sensibili ai messaggi che il corpo trasmette a livello sociale e politico. Se, come suggeriva Foucault, il corpo è un campo di potere, allora imparare ad ascoltarlo è un atto di emancipazione. Non subiamo più i condizionamenti esterni in modo passivo, ma ci riappropriamo del nostro sentire, mettendo in discussione regole e ruoli che non rispecchiano la nostra verità profonda.
Quando un individuo o una collettività torna a vivere in modo più incarnato, si crea lo spazio per una resistenza verso modelli alienanti. Diventa più difficile accettare forme di sfruttamento o di manipolazione, perché il corpo segnala la sofferenza e non la nasconde più dietro norme sociali date per scontate. Così, la presa di coscienza del corpo come specchio dell’anima acquista anche una valenza etica e politica.

8. Conclusioni: un invito all’ascolto profondo

Abbiamo attraversato un lungo percorso: dalle radici filosofiche del dualismo mente-corpo alla prospettiva fenomenologica che rivaluta il corpo come luogo primario dell’esperienza; dai contributi neuroscientifici di Damasio e Gallese, che mostrano l’importanza dei segnali somatici nell’emozione e nell’empatia, alle teorie del trauma che indicano come i dolori psichici possano imprimersi nella nostra fisiologia, parlando tramite sintomi e malesseri. Abbiamo guardato al corpo anche come alfabeto simbolico, riflettendo sull’importanza di miti, fiabe, danza, scrittura e ritualità collettive che danno voce al nostro vissuto interiore.
Il filo rosso che unisce tutti questi contributi è l’idea che il corpo non sia un mero “strumento” o una “macchina biologica”, bensì uno specchio vivo della nostra vita psichica, emozionale e spirituale. Ignorare i segnali del corpo equivale a ignorare parti essenziali di noi stessi; ascoltarli è un atto di conoscenza e, al contempo, di guarigione. Questo ascolto non è sempre facile: richiede coraggio, perché può far affiorare ricordi, paure, conflitti che la mente cosciente preferirebbe tenere a distanza. Ma è anche un percorso di libertà: ci rende più autentici, più connessi a ciò che davvero siamo e desideriamo, e ci permette di instaurare relazioni più empatiche con gli altri e con il mondo che abitiamo.
In un’epoca dominata dalla performance e dalla velocità, riscoprire il corpo come specchio dell’anima significa scegliere la lentezza, l’approfondimento, la cura di sé. Significa dare valore ai nostri “sintomi” non come semplici problemi da eliminare, ma come messaggi da decifrare. Significa aprirsi a pratiche di meditazione, di movimento consapevole, di scrittura e di espressione artistica che facciano dialogare il dentro e il fuori, il vissuto e la forma, l’intuizione e il linguaggio.
Forse non esiste una singola via per realizzare questo dialogo: ognuno può trovare quella più adatta alla propria indole, alla propria storia, alle proprie esigenze. Ma il punto comune resta: se il corpo è davvero specchio dell’anima, allora non possiamo più permetterci di relegarlo a oggetto di consumo o di trascurarlo come un contenitore inerte. È un interlocutore, un alleato, un maestro. E nel suo riflesso potremo vedere non solo le ferite, ma anche la bellezza e la forza di cui siamo capaci.
In ultima analisi, “specchiarci” nel corpo ci aiuta a scoprire parti di noi che la mente razionale ignora o reprime. Ci permette di reintegrare aspetti antichi, di ritrovare significati perduti, di far emergere il nostro daimon, quella vocazione profonda che, come sostenevano i filosofi greci e James Hillman, ci accompagna sin dalla nascita. E allora sì: l’anima e il corpo si rivelano un tutt’uno, due facce di un’unica medaglia, due volti di una storia umana che attende di essere compresa, accolta e vissuta in pienezza.

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Il Mito de la Cura

Il Mito de la Cura

Il Mito

Il mito racconta che, un giorno, nell’attraversare un fiume, l’attenzione di Cura sia stata attratta dal fango argilloso. Pensosa, senza bene rendersi conto di quello che andava facendo, Cura si mise a modellarla, traendone la figura di un uomo.

Fu allora che sopraggiunse Giove, a cui la dea chiese di infondere spirito vitale nella scultura da lei plasmata, cosa a cui Giove acconsentì con facilità. A questo punto, Cura chiese di poter imporre il proprio nome alla creatura, ma il dio glielo negò, sostenendo il nome di quell’essere doveva provenire da lui, che gli aveva infuso la vita.

Ne nacque una disputa, che si complicò quando a essa si unì la Terra: questa riteneva, infatti, che il nome avrebbe dovuto essere il suo, essendo sua la materia con cui era stata plasmata la creatura. Per risolvere la diatriba, fu chiamato a pronunciarsi Saturno, il cui giudizio distribuì le rivendicazioni: a Giove, che aveva infuso lo spirito sarebbe toccato, alla morte di quell’essere, di rientrare in possesso dell’anima; alla Terra, della cui materia l’essere era composto, sarebbe tornato il corpo dopo la morte; ma a possederlo durante tutta la vita sarebbe stata l’Inquietudine, la prima a plasmarlo. Il nome, invece, non sarebbe toccato a nessuno dei tre contendenti: l’essere si sarebbe chiamato “uomo“, perché creato dall’humus.[2]

 

(tratto da Wikipedia)

 

Il Mito de la Cura

Scritto da

il mito della cura, studiato da Heidegger e raccontando nel suo libro Essere e Tempo, tocca le corde di una conoscenza ancestrale, molto antica agli occhi dell’uomo contemporaneo, ma molto intima e sentita.

L’essenza dell’uomo stesso è la cura che lo costituisce da un punto di vista esistenziale o ontologico come direbbe il filosofo tedesco. Ne costituisce il significato. il senso della vita stessa dell’uomo inteso come discorso che si fa reale, racconto nel divenire del tempo. Noi esistiamo nella materia, in questa dimensione e di conseguenza lo siamo in divenire nel tempo. La cura intesa come prendersi cura, di noi stessi e del mondo è il principio stesso del nostro esistere ciò che ci da sostanza e significato. Un ragionamento molto filosofico, che però ha una serie di ripercussioni forti nella vita pratica dell’essere umano. Se questo risulta vero come nel racconto del mito greco, non si tratta solo di occuparsi degli altri, della comunità, della natura, ma è insito nel significato stesso della nostra esistenza. Come nella canzone di Battiato, che prende il titolo dalla figura mitologica stessa, ci troviamo di fronte all’esigenza, principio implicito del nostro vivere. Non possiamo esimerci dal prenderci cura dell’altro, dell’ambiente che ci circonda, del mondo nella sua evoluzione naturale, cercando conoscenza e attenzione al suo naturale svolgimento, come un giardiniere nell’Eden che ci è stato consegnato alla nostra nascita, alla vita. Purtroppo nelle perdita del contatto con la nostra essenza, attraverso la perdita di contatto con il corpo, avviene il senso di lacerazione e l’apparizione inconsapevole dell’abisso della solitudine. Nei processi rituali che definivano il nostro aggregarci in tribù, nei canti, nelle danze, nei riti iniziatici, l’uomo cercava la percezione di questo contatto primigenio con la vita, la riproduzione del processo di nascita, rivoluzione, morte e rinascita del Sole, raccontato anche così prepotentemente dal mito della Cura. Dalla polvere, nasciamo ed alla polvere torniamo (dust in the wind dei Kansas).
Il profondo condizionamento prodotto dall’impronta fortemente utilitaristica della tecnologia, ci porta a porre l’attenzione sulla modalità prettamente razionale di interpretazione della realtà che ci circonda. La Tecnologia serve a migliorare le condizioni di vita, ma lo strumento nel momento che diventa parte stessa del corpo, lo trasforma cambiando anche i nostri stessi processi cognitivi perché l’organismo umano è un sistema volto a produrre consumando meno energia possibile, di conseguenza una volta acquisiti dei processi non serve alimentare quella parte del cervello che deve mantenere la consapevolezza su di essi. I processi rimangono memorizzati nel cervello attivando percorsi automatizzati nel corpo e la parte adibita all’attenzione consapevole il cosiddetto cervello che nota, si spegne, mantenendo il pilota automatico per ciò che è considerato puramente sopravvivenza. Ecco l’importanza che costituiscono gli studi contemporanei sul trauma. stanno scoprendo come funzioniamo rispetto alle esperienze che consideriamo traumatiche e come siamo ingegnerizzati per salvarci la vita. Tutto questo ci fa dimenticare, o per meglio dire, perdere la percezione del contatto con ciò che profondamente percepiamo nel corpo, la nostra essenza creatrice, che per i greci era la Cura. L’arte è un linguaggio che ci aiuta a riprendere il contatto, ma questa è un altra storia.

Nel suo libro “Essere e tempo”, Martin Heidegger racconta il mito della Cura, un mito che descrive la condizione esistenziale dell’uomo.

Il mito della Cura è una metafora della condizione esistenziale dell’uomo. L’uomo è un essere gettato nel mondo, senza una natura o una destinazione predeterminata. L’uomo è libero di scegliere il proprio destino, ma è anche responsabile delle proprie scelte.

La Cura è la struttura ontologica dell’uomo, è la sua condizione di essere-nel-mondo. La Cura è ciò che ci permette di relazionarci con il mondo e con gli altri.

Heidegger distingue tra due tipi di Cura:

  • La Cura inautentica: è la Cura che si perde nel mondo delle cose e delle opinioni. L’uomo inautentico è un essere-per-gli-altri, che vive la sua vita in funzione degli altri.
  • La Cura autentica: è la Cura che si assume la propria responsabilità e si orienta verso il proprio significato. L’uomo autentico è un essere-per-sé, che vive la sua vita in funzione di se stesso.

Il mito della Cura è un mito che può aiutarci a comprendere la nostra condizione esistenziale. Se comprendiamo la nostra condizione di essere-nel-mondo, possiamo scegliere di vivere una vita autentica e significativa.

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Paura della morte

Paura della morte



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Paura della morte

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Checov un giorno disse: “L’idea della morte mi accompagna da tutta la vita, l’ho pensata per tutta l’esitenza, ma quando lei arriverà io non ci sarò. Sarò già morto”. In fondo il sogno di trovarsi di fronte alla propria morte in maniera consapevole e magari potersi relazionare con essa è un pensiero molto pop. Se pensiamo alla canzone Samarcanda di Vecchioni o al film Brancaleone alle Crociate in cui alla fine il protagonista accetta di affrontare con lei l’ultimo duello. Anche nel medioevo era oggetto di canzoni come dimostra il ballo in fa diesis di Branduardi. La paura di morire nasconde un tema profondo ed “esistenziale” presente in tutta la storia del pensiero umano, l’eterna domanda sul significato della vita. D’altronde vita e morte non possono  essere concepite l’una senza l’altra

Abbiamo paura di morire,  

in realtà sappiamo fin dalla nascita che accadrà, ma per un certo periodo di tempo non ci pensiamo, presi dalle emozioni e dal fluire della vita, non facciamo caso al tempo che scorre. Improvvisamente poi (con la crisi di mezza età, direbbe qualcuno) col passare degli anni questa paura si affaccia, ci ricordiamo che non ci saremo:

“Ricordati che devi morire!” predicava Savonarola, “mo me lo scrivo!” rispose il meraviglioso Massimo Troisi in – Non ci resta che piangere –
Non è la morte in sé che ci spaventa, d’altronde quando arriva non siamo più vivi per saperlo, quanto il fatto che non vivendo più, non possiamo più fare esperienze, provare emozioni, percepire tutto quello che definiamo vita, ciò che siamo, il nostro flusso di pensieri, la percezione della nostra identità.
E se invece potessimo farlo ugualmente?
Per questo dalle storie (racconti popolari e favole) e dai miti siamo passati alle religioni, per rispondere all’orrore di questo vuoto esistenziale.  La Paura è la chiave alla produzione di risposte possibili che diano senso al caos inspiegabile senza leggi. Anche Einstein ne era terrorizzato osservando i primi barlumi della Fisica Quantistica “Dio non gioca a dadi” disse.
Le religioni nascono dalla paura, non lo sostengo io ma il primo antropologo italiano inconsapevole data l’epoca, Giambattista Vico. Ovviamente hanno un grande potere consolatorio e siamo liberi personalmente di credere in ciò che preferiamo. Ma proviamo insieme a giocare al come sarebbe se, proviamo a dire che abbiamo diversi modi di leggere ed ascoltare la storia raccontata  prima dai miti e poi dalle religioni. Il primo prendendo alla lettera ciò che raccontano le sacre scritture. Esiste Dio che è un essere superiore, il quale ci ha creato a sua immagine e osserva come ci comportiamo, giudicandoci all’ultimo in un finale abbastanza pirotecnico

e data la situazione del pianeta e dell’umanità c’è chi sospetta che ci siamo vicini. Considerando che esistono religioni diverse e di conseguenza “Dio” differenti, questo spesso genera discussioni e conflitti non indifferenti su quale sia quello vero. Benigni diceva in un noto sketch televisivo: “E se poi dall’altra parte incontrassimo Manitù che gli diremmo? Ah io leggevo Tex Willer! “. Se esistesse un altro modo di leggere ed ascoltare queste storie? Sono storie che in realtà nascono dall’alba dei tempi e che forse fanno riferimento all’idea di monomito di cui parlava Joseph Campbell ne “L’eroe dai mille volti”. Da Gilgamesh a Mitra, Ercole, Zoroastro, Brama e il suo adepto Arjuna, Buddha, Gesù di Nazareth. Tutte le loro vite, le loro storie, le azioni compiute, raccontano un viaggio dell’eroe che tra le righe nasconde più di un messaggio profondo. Queste storie nascono da racconti che descrivono percorsi esperienziali, viaggi di acquisizione di consapevolezza che avvengono durante la loro stessa vita e li trasformano dalla semplice dimensione umana che hanno al principio, in quella divina del finale e quindi suggeriscono un senso differente all’esistenza stessa, portando il messaggio che essendo loro stessi persone nate come qualsiasi altro essere umano, il loro è un viaggio che chiunque potrebbe compiere: chiunque potrebbe in fondo sconfiggere la morte, nel senso di andare oltre il concetto di fine dell’esistenza. Non entro nel merito di questioni puramente teologiche qui, adesso, come ad esempio la verginità della madre  ecc. Ogni racconto ha un narratore con interessi che vanno oltre la semplice narrazione della storia e tutti sappiamo quanto manipolatorie possano essere i racconti, ma questo sarà tema di un altro post.  il problema del senso della vita nasce proprio per colmare la sensazione di vuoto e di dolorosa vertigine che l’uomo prova  al momento della morte.  Si ritrova solo con tutti i giorni ormai passati, tutti i beni e le proprietà acquisite (San Filippo Neri cantava Tutto è vanità )

senza più tempo per poterle vivere, provare piacere o benessere, senza il tempo per realizzare altri desideri L’unica cosa che riempie quel senso di vuoto in quell’istante senza più la percezione della gioia e della pace.

L’uomo si ritrova solo con il vuoto  di fronte all’ignoto, è questo che fa davvero paura: il senso di profondo nichilismo che pervade il tutto. Quello che ci viene raccontato nell’esperienza della vita quotidiana di questi personaggi straordinari, è che ci sono momenti che non hanno a che fare con il possedere, il reagire, il dominare e vincere, l’ottenere riconoscimento o gratificazione  e momenti ch hanno a che fare invece proprio con quel senso di pace comprensione comunione con la natura, con le altre persone, momenti di partecipazione emotiva, si direbbe d’amore ed è questo che in realtà ci fa sentire meglio di qualsiasi altra esperienza. Preferiscono alla vita definita mondana un senso diverso più profondo perché ci dicono che ciò che sentono in quei momenti rari in verità è il flusso della vita stessa. Ciò che nel romanticismo definivano come flusso poetico. La storia, dunque che ci sarebbe stata raccontata per millenni attraverso queste storie, sarebbe quella dell’evoluzione dell’essere umano da una dimensione animale iniziale ad una sempre più in connessione con il principio vitale che anima questo sistema -universo- e poi perchè no, il pluriverso. Sostengono gli indù il Brama stesso, il Logos, il Tawhid esso è il principio a cui ci ricongiungiamo, è come se ad un certo punto la nostra funzione identitaria, la nostra coscienza di sistema si sintonizzasse con la -Matrix- di tutto il sistema che genera la vita stessa e non con la singola causalità del quotidiano, azioni quotidiane fatte di preghiere, meditazioni, comportamenti ed esperienze che cambino fisicamente il nostro cervello e sviluppino una sorta di super coscienza evoluta. Certo questa potrebbe essere una bella storia da scoprire per abbandonare la paura della morte come fine di ciò che siamo, perchè potremmo essere semplicemente molto di più da ciò che abbiamo pensato di essere fino ad oggi.

Per Michel Foucault, la morte non è un evento naturale, ma un’invenzione sociale.

La morte, infatti, non è un’esperienza che possiamo vivere direttamente, ma è qualcosa che ci viene raccontato. È attraverso i discorsi, le pratiche e le istituzioni che la morte viene costruita e significata.

Foucault sostiene che la morte è stata inventata in epoca moderna, con l’avvento della medicina e della scienza. In precedenza, la morte era un evento quotidiano e familiare, che faceva parte della vita quotidiana. Con l’avvento della medicina, la morte è diventata un evento sempre più raro e lontano, che ha finito per essere percepito come qualcosa di spaventoso e misterioso.

La morte, secondo Foucault, è una costruzione che serve a diversi scopi. Innanzitutto, serve a controllare e disciplinare i corpi. La paura della morte è un efficace strumento per indurre le persone a conformarsi alle norme sociali e a evitare comportamenti rischiosi. In secondo luogo, la morte serve a legittimare il potere. La morte è spesso utilizzata per giustificare la violenza e l’oppressione, come nel caso della guerra o della pena di morte.

L’affermazione di Foucault che la morte è un’invenzione ha suscitato molte polemiche. Alcuni critici hanno accusato Foucault di negare la realtà della morte. Altri hanno sostenuto che Foucault ha esagerato l’influenza dei discorsi e delle pratiche sociali sulla nostra percezione della morte.

Tuttavia, l’affermazione di Foucault che la morte è una costruzione sociale ha il merito di aprire una nuova prospettiva sul tema della morte. Foucault ci invita a riflettere sul modo in cui la morte viene rappresentata e significata nella nostra cultura. Ci invita a chiederci quali sono le conseguenze di questa costruzione sociale per la nostra vita e per la nostra percezione della morte.

Ecco alcuni esempi di come la morte viene costruita e significata nella nostra cultura:

  • La medicina e la scienza: la medicina e la scienza hanno contribuito a rendere la morte un evento sempre più raro e lontano. I progressi della medicina hanno portato a un aumento dell’aspettativa di vita e a una riduzione della mortalità infantile. La scienza, invece, ha contribuito a spiegare la morte come un processo naturale, privo di significato.
  • I media: i media hanno un ruolo importante nella costruzione della nostra percezione della morte. I notiziari, i film e le serie televisive ci presentano spesso la morte come un evento violento e tragico. Questo può contribuire a alimentare la paura della morte e a vedere la morte come qualcosa di negativo.
  • La religione: la religione offre diverse spiegazioni sulla natura della morte. Alcune religioni, come il cristianesimo, propongono l’idea di un’aldilà, dove la vita continua dopo la morte. Altre religioni, invece, come il buddismo, propongono l’idea della reincarnazione, dove l’anima si reincarna in un nuovo corpo dopo la morte.

La nostra percezione della morte è influenzata da una varietà di fattori, tra cui i discorsi, le pratiche e le istituzioni sociali.

Nel suo libro “Essere e tempo”, Martin Heidegger racconta il mito della Cura, un mito che descrive la condizione esistenziale dell’uomo.

Il mito narra di una dea chiamata Cura, che si imbatte in un fango cretoso e decide di plasmarlo a sua immagine. Dopo averlo plasmato, Cura gli dà il nome di “uomo” e lo abbandona nel mondo.

Il mito della Cura è una metafora della condizione esistenziale dell’uomo. L’uomo è un essere gettato nel mondo, senza una natura o una destinazione predeterminata. L’uomo è libero di scegliere il proprio destino, ma è anche responsabile delle proprie scelte.

La Cura è la struttura ontologica dell’uomo, è la sua condizione di essere-nel-mondo. La Cura è ciò che ci permette di relazionarci con il mondo e con gli altri.

Heidegger distingue tra due tipi di Cura:

  • La Cura inautentica: è la Cura che si perde nel mondo delle cose e delle opinioni. L’uomo inautentico è un essere-per-gli-altri, che vive la sua vita in funzione degli altri.
  • La Cura autentica: è la Cura che si assume la propria responsabilità e si orienta verso il proprio significato. L’uomo autentico è un essere-per-sé, che vive la sua vita in funzione di se stesso.

Il mito della Cura è un mito che può aiutarci a comprendere la nostra condizione esistenziale. Se comprendiamo la nostra condizione di essere-nel-mondo, possiamo scegliere di vivere una vita autentica e significativa.

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Rabbia

Rabbia

Rabbia

La rabbia è un’emozione di base universale e un’esperienza umana comunemente condivisa, indipendentemente dalletà, dalla cultura o dalletnia. La funzione adattiva della rabbia risiede nellistinto di proteggersi per sopravvivere nel proprio ambiente e di reagire alle ingiustizie, ai torti subiti o percepiti e alla percezione che i propri diritti sono stati violati.

La rabbia è l’emozione, nella sua definizione lessicale che domina il comportamento umano nella nostra società contemporanea provocando quella che invece definiamo aggressione

La rabbia è uno stato emotivo, come descritto sopra, mentre laggressione si riferisce all’azione compiuta. Laggressività è coerente con l‘aggressione fisica e verbale, mentre la rabbia è coerente con un forte senso di disagio, che rappresenta un’espressione soggettiva di aggressività. La rabbia può causare comportamenti aggressivi (ad esempio, urlare, lanciare oggetti) e aumenta in modo affidabile la probabilità di mettere in atto tali comportamenti (Anderson & Bushman, 2002). Tali comportamenti possono portare a conseguenze negative come liti violente, danni alla proprietà e aggressioni fisiche. Pertanto, le persone con alti livelli di rabbia hanno maggiori probabilità di subire conseguenze negative (Deffenbacher, Oetting, Lynch, & Morris, 1996). La violenza è lesempio più drammatico delle conseguenze negative della rabbia e la forma più distruttiva di gestione (Korn & Mùcke, 2001). Tuttavia, i sentimenti di rabbia non sempre sfociano in comportamenti violenti e aggressivi, così come la violenza e l‘aggressività possono verificarsi senza rabbia (ad esempio, nel caso del furto, un attacco puramente strumentale). Infatti, alcuni comportamenti aggressivi sono privi di rabbia, mentre altri sono pieni di rabbia che non può essere definita aggressiva. Le persone guidate dalla rabbia sono sempre emotive, mentre le persone aggressive possono essere poco emotive e apatiche (Fein, 1993).

Allinterno della categoria emotiva della rabbia, esistono vari stati emotivi ad alta intensità emotiva e attivazione, come la rabbia, la collera e il risentimento, nonché stati emotivi a bassa intensità, come il risentimento, la frustrazione e limpazienza. In tutti i casi, questi stati emotivi sono intensi ma transitori. Tuttavia, possono rimanere e persistere nella persona attraverso vari meccanismi di mantenimento, come le ruminazioni di rabbia.

Allo stesso modo, a livello linguistico, nel vocabolario emotivo della categoria emotiva della rabbia, gli individui usano parole specifiche per descrivere questo stato emotivo, come risentito, irritabile, arrabbiato, furioso, furioso, irritabile, lunatico, ostile, furioso e arrabbiato.

La rabbia è uno stato emotivo intenso che si attiva nellindividuo in risposta a stimoli interni ed esterni e alle loro interpretazioni cognitive. È un processo che segue fasi specifiche (insorgenza, persistenza e attenuazione) ed è spesso accompagnato da cambiamenti fisiologici e comportamentali che hanno la funzione di adattare l’individuo allambiente.

Le sue componenti comprendono lattivazione fisiologica dellorganismo, le componenti cognitive (interpretazioni cognitive, pensieri, credenzee immagini), le componenti fenomenologiche (percezioni soggettive, etichettatura lessicale) e le componentie spressive e comportamentali (linguaggio del corpo, espressioni facciali e tendenze comportamentali). Queste dimensioni interagiscono tra loro e influenzano lesperienza individuale della rabbia.

La rabbia è una reazione emotiva che genera un comportamento, il più delle volte di tipo violento

Come si manifesta nella persona la rabbia?

 La rabbia è principalmente una sensazione corporea, la definiamo emozione,  ma la parola ci porta a pensare a qualcosa di astratto che effettivamente prova il corpo. non riusciamo ad osservarla e quindi definirla completamente, quando siamo presi da questa emozione il corpo ci spinge ad agire di più in fretta possibile in due direzioni opposte una di Iperarosal o iperattivazione e l’altra di ipoarousal (Van Der Kolk 2021)  La prima è una reazione di attacco, la seconda di difesa di fuga.  In pratica o alziamo il tono della voce e cerchiamo di cambiare il nostro stato quello che in realtà pensiamo sia la situazione agendo anche in maniera violenta oppure scappiamo, ci nascondiamo oppure ci viene sonno tendiamo a dormire o addirittura ci congeliamo. Mentre accade tutto questo il cervello non smette completamente di pensare ma attiva delle reti neurali che noi percepiamo come pensieri, nella maggior parte dei casi di contenuto svalutante riguardano la nostra incapacità o la concezione di  giusto o sbagliato. Sono tutti pensieri che attribuiscono il verificarsi degli eventi a responsabilità relativa a causa esterne  “è quello che non sa guidare” ” mi ha tagliato la strada” ” è lui che mi ha attaccato” ” Lo senti che dice?”

Ggli eventi indubbiamente accadono, ma la responsabilità  di quello che noi percepiamo dipende da noi.  Se coltiviamo e ci addestriamo ad imparare ad osservare le nostre reazioni, con un addestramento di tipo mindfulness (Fisher 2022)  usciamo dall’attivazione automatica della rete e ci ritroviamo a scoprire nuove risorse che ci permettono di reinterpretare quella sensazione di sofferenza come una semplice perturbazione energetica interiore.
L’uomo fin dai tempi antichi attraverso il racconto di storie, favole, diventate nel tempo miti e poi persino racconti di tipo religioso ha indagato e soprattutto suggerito comportamenti per andare oltre questi comportamenti. Interpretati come comportamenti limitanti hanno contrubuito ad alimentare l’idea teleologica di un fine evolutivo all’esistenza dell’essere umano. Apprendere le tecniche specifiche di gestione dell’iperarusal o ipoarusal, pone l’uomo nella condizione  esistenziale superiore di superamento della parte animale per giungere a quella divina. Proprio questo intendeva il Buddha quando diceva di controllare le pulsioni del corpo o Gesù di Nazareth quando diceva di porgere l’altra guancia e che il regno dei cieli è di coloro che sono miti. Oggi potremmo dire consiste nel  coltivare la capacità di osservare le proprie reazioni osservandole, in questo modo la corteccia prefrontale non si spegne e l’attivazione automatica della rete si scioglie, non avviene più in un attimo ma addestrandosi in maniera disciplinata si riesce a sviluppare la parte duale del cervello, di fatto potenziandolo.
La rabbia come doppio legame

Bateson ha studiato in particolare il ruolo della rabbia nel contesto del doppio legame. Il doppio legame è una situazione comunicativa in cui una persona riceve due messaggi contraddittori, entrambi con lo stesso livello di importanza. Questo può portare a una confusione e a una frustrazione che possono sfociare in rabbia.

Ecco alcuni esempi di doppio legame:

  • Un genitore che dice al figlio “Voglio che tu sia te stesso, ma devi essere come voglio io”.
  • Un insegnante che dice allo studente “Sei intelligente, ma non sei abbastanza bravo per questo compito”.
  • Un partner che dice al coniuge “Ti amo, ma non so se posso fidarmi di te”.

In questi esempi, la persona che riceve il messaggio è in una situazione in cui non può vincere. Qualunque cosa faccia, sarà in errore. Questo può portare a una confusione, a una frustrazione e a un senso di impotenza.

La rabbia nelle culture diverse

La rabbia, nelle diverse culture ha sempre un valore sia positivo che negativo

  • Nella cultura mongola, la rabbia è vista come una forza potente che può essere positiva o negativa. D’altra parte, la rabbia è talvolta vista come un’energia positiva per combattere per ciò che è giusto. Ad esempio, la storia di Temujin, il fondatore dell’Impero mongolo, racconta di un uomo che usò il potere della rabbia per vendicarsi dei suoi nemici e unire il popolo mongolo.
  • Daltraparte, la rabbia è talvolta vista come una forza negativa che portaalla violenza e alla distruzione. Per esempio, la storia di Gengis Khan, nipote di Temujin, descriveun uomo che ha usato la sua rabbia per conquistare gran parte dell’Eurasia, causando morte e distruzione.
  • Nella cultura tibetana, la rabbia è considerata un’emozione da controllare. I tibetani credono che la rabbia sia una manifestazione dell’ego e che porti alla sofferenza. Per questo motivo, i tibetani praticano varie tecniche di meditazione e mindfulness per imparare a controllare la rabbia.
  • Nella cultura indiana americana, la rabbia è considerata un’emozione naturale che può essere positiva o negativa. D’altra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza positiva che può essere utilizzata per l’autodifesa o per proteggere gli altri. Ad esempio, la storia di Tecumseh, un capo tribù dei nativi americani, racconta di un uomo che usò la sua rabbia per resistere all‘invasione dei coloni europei.
  • Daltra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza negativa che può portare alla violenza e alla distruzione. Per esempio, la storia di Cavallo Pazzo, un altro capo tribù dei nativi americani, racconta di un uomo che usò la sua rabbia per combattere contro i coloni europei, ma alla fine fu ucciso in battaglia.
  • Nella cultura Inuit, la rabbia è considerata un’emozione da controllare. Gli Inuit credono che la rabbia porti a decisioni impulsive, che possono avere conseguenze negative. Per questo motivo, gli Inuit praticano diverse tecniche di risoluzione dei conflitti per imparare a gestire la rabbia in modo costruttivo.
  • Nella cultura lappone, la rabbia è riconosciuta come un’emozione che deve essere controllata. I lapponi credono che la rabbia porti sfortuna e malattie. Per questo motivo, i lapponi praticano varie tecniche di meditazione e mindfulness per imparare a controllare la rabbia.
  • Nella cultura indonesiana, la rabbia è considerata un’emozione naturale che può essere positiva o negativa. D’altra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza positiva che può essere utilizzata per l’autodifesa o per proteggere gli altri. Ad esempio, la storia del generale indonesiano Gajah Mada racconta di un uomo che usò la sua rabbia per combattere contro i colonizzatori portoghesi.
  • Daltra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza negativa che può portare alla violenza e alla distruzione. Ad esempio, la storia di Pangeran Diponegoro, un altro generale indonesiano, racconta di un uomo che usò la sua rabbia come arma per combattere i coloni olandesi, ma alla fine fu sconfitto ed esiliato.
  • Nella cultura celtica, la rabbia è vista come un’emozione naturale che può essere positiva o negativa. D’altra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza positiva che può essere utilizzata per l’autodifesa o per proteggere gli altri. Ad esempio, la storia dell’eroe celtico Cù Chulainn racconta di un uomo che usò la sua rabbia per combattere i suoi nemici.
  • Daltra parte, la rabbia è talvolta vista come una forza negativa che può portare alla violenza e alla distruzione. Per esempio, la storia della regina celtica Medb racconta di una donna che usò la sua rabbia per conquistare il regno di Connacht.
  • In conclusione, la rabbia è un’emozione che viene valutata in modi diversi nelle varie culture. In alcune culture la rabbia è vista come una forza positiva che dovrebbe essere usata a fin di bene. In altre culture, la rabbia è vista come una forza negativa da controllare.

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Rabbia

La rabbia è un'emozione di base universale e un'esperienza umana comunemente condivisa, indipendentemente dall'età, dalla cultura o dall'etnia. La funzione adattiva della rabbia risiede nell'istinto di proteggersi per sopravvivere nel proprio ambiente e di reagire...

Conflitto

Siamo di fronte ad un dramma, a noi fortunati che non lo viviamo in prima persona ci si presenta mediante le pagine dei giornali, i notiziari televisivi, i post con foto e commenti su internet e nella nostra quotidianità così bombardata d’informazione e fiction, non è...

Desiderio

Il desiderio: Sentimento intenso che spinge a cercare il possesso, il conseguimento o l’attuazione di quanto possa appagare un proprio bisogno fisico o spirituale (dalla Enciclopedia Treccani), Quello che realmente proviamo è la percezione della mancanza di qualcosa,...

Conflitto

Conflitto

Conflitto

Siamo di fronte ad un dramma, a noi fortunati che non lo viviamo in prima persona ci si presenta mediante le pagine dei giornali, i notiziari televisivi, i post con foto e commenti su internet e nella nostra quotidianità così bombardata d’informazione e fiction, non è certo attraverso questi strumenti che prendiamo coscienza della drammaticità della situazione. Anzi tutta questa comunicazione, questa narrazione alimenta maggiormente un senso ipnotico di lontananza e distacco da eventi che stanno accadendo realmente ad esseri umani come noi. Sono persone i migranti morti in mare cercando un approdo, sono persone i cittadini ucraini e russi che si combattono o subiscono i bombardamenti nelle loro case, sono persone quelle uccise dai terroristi in Israele e lo sono quelle bombardate da Israele nella striscia di gaza ed in Libano. Dovrebbe essere inutile ribadirlo, ma proprio questa continua informazione, questo continuo polarizzare l’opinione della gente lascia una sensazione profonda di estraniamento che produce un sottile stato di shock al quale il cervello umano risponde con la dissociazione e quindi la perdita di empatia.

Non sono io ovviamente a dirlo, ma gli ultimi studi neuroscientifici. Più i problemi che ci vengono raccontati sono di carattere generale e grandi rispetto alla nostra quotidianità, più il nostro cervello entra in protezione tende a spegnere i lobi frontali. Ecco perché assistiamo a situazioni di partecipazione collettiva alla soluzione immediata di tragedie, lì sul posto dove avvengono, terremoti, alluvioni, ma anche atti di terrorismo, ma ci sembrano così lontane situazioni di conflitto che non viviamo in prima persona e che non siamo in grado d’immaginare viverle. La continua narrazione finalizzata alla verità di un gruppo di opinione mediante processi conflittuali di discussione o dibattito, non aiuta ad uscire da questo stato ipnotico di partecipazione comunicativa.

Jonathan Heidt

Noi costruiamo storie non ragionamenti

Esistono situazioni in cui l’essere umano si sente parte di una comunità e situazioni in cui il principio di sopravvivenza prende il sopravvento e vige la legge dell’ognun per sé e Dio per tutti. Questo discorso che può sembrare discretamente semplice o una questione di senso comune come lo avrebbe definito qualche filosofo illuminista in realtà nasconde una questione ben più profonda. È vero che la società umana è una realtà collettiva e che perché questa evolva sono necessarie leggi che ne definiscano i diritti ed i doveri, ma è pur vero che la collettività è composta dai singoli individui e che è attraverso il cambiamento e l’evoluzione dei singoli che avviene l’evoluzione dell’intero sistema. Il punto fondamentale è che non siamo consapevoli dei nostri processi decisionali, non solo per quanto riguarda le azioni da intraprendere, ma anche per quanto riguarda le idee che sviluppiamo e di conseguenza il significato che diamo agli eventi ed il significato che diamo all’intero nostro mondo. Questo è un grosso problema che si ripercuote sul funzionamento di tutto il sistema terra.

Gli studi sul trauma sviluppatisi nei prima anni 2000 ci stanno mostrando come molti filosofi della prima metà del ‘900 avessero già intuito qualcosa: l’importanza del corpo in senso ontologico.

Husserl, Heidegger, Merleau-Ponty e poi Lacan, Levinas per strade diverse e percorsi differenti ci hanno sollecitato ad osservare quanto fosse l’esserci, il corpo, il desiderio, la vista del volto dell’altro alla base del senso di esistenza che viviamo e ci determina.

Il trauma è una risposta automatica che il cervello innesta per permettere all’individuo di sopravvivere, il trauma il più delle volte non viene ricordato dalla mente narrativa, quella che ci parla tutto il giorno, ma è memorizzato nel corpo e spesso si riattiva non appena il cervello arcaico o rettile riceve dei segnali impercettibili per la corteccia. Per il nostro senso di identità mentale sono indistinguibili, ma ci sono e la reazione avviene in maniera automatica. Di qui ecco perché a volte agiamo in maniera inconsulta. Le reazioni di rabbia, dall’urlare fino a picchiare a sangue il nostro presunto nemico, dal sentirci perennemente stanchi a deprimersi fino al non uscire più di casa. Sono tutte risposte, naturalmente di intensità differente a traumi memorizzati nel nostro corpo. Ora il trauma una volta riattivato cosa produce? come facciamo a rendercene conto? Ci sono tre fattori che ne definiscono l’attivazione, come sostiene il lo Psichiatra Bessel Van Der Kolk questi arrivano sempre insieme: una sensazione di profondo sconvolgimento fisico, calore, tensione, crampi, tremolio ecc. un pensiero di allerta o profondamente negativo su ciò che stiamo vivendo e su se stessi ed infine una spinta fortissima a scaricare mediante un’azione, scappare o attaccare, tirare un pugno, urlare fino a situazioni ancora più drammatiche come dare ad esempio 30 coltellate a qualcuno senza rendersene veramente conto. questi fenomeni tutti noi li viviamo continuamente nella nostra giornata, fin da quando eravamo bambini. È su questi fenomeni che abbiamo costruito il senso della nostra identità, la percezione di essa e diamo un significato alla nostra vita, perché è attraverso le connessioni di causa ed effetto, le loro relazioni con le nostre percezioni che ci siamo costruiti e ci costruiamo di continuo la narrazione di ciò che siamo. Noi costruiamo storie non ragionamenti come sostiene il noto psicologo Jonathan Heidt.

Cominciamo allora a capire cosa sta accadendo al nostro mondo? La maggior parte delle scelte che facciamo nella nostra vita quotidiana, ma anche quelle compiute a livello politico, sociale da persone che ricoprono incarichi pubblici e ruoli le cui le loro singole azioni si ripercuotono sulla vita dei molti, sono scelte e azioni dettate da reazioni traumatiche inconsapevoli, ma giustificate razionalmente da narrazioni distorte. Ci stiamo raccontando un mondo sempre più dispotico e lo stiamo creando, perché noi stessi non affrontiamo la nostra dissociazione in modo consapevole e non iniziamo a renderci coscienti delle nostre reazioni traumatiche. I conflitti sono l’esempio più lampante di questa situazione. La paura, la responsabilità delle reazioni dovute alla violenza delle azioni del nostro nemico (antagonista) innescano dei processi di sopravvivenza in cui quelli che noi chiamiamo ragionamenti in realtà sono narrazioni, storie non reali. Esiste un altro modo di risolvere i conflitti. Nella sua massima sintesi si potrebbe dire, attraverso l’empatia: Conosci te stesso in profondità, per conoscere l’altro e scoprire che siamo veramente uguali. Questa dovrebbe essere la base di partenza per intraprendere azioni concrete finalizzate ad evolvere la nostra comunità umana

Conflitti tuttora presenti sul nostro pianeta a cui non abbiamo ancora trovato una soluzione

  • Guerra in Ucraina: guerra in corso tra Russia e Ucraina iniziata il 24 febbraio 2022. La Russia ha invaso l’Ucraina, accusando il paese di essere una minaccia alla sua sicurezza nazionale. La guerra ha causato la morte di migliaia di persone e la fuga di milioni di ucraini dalle loro case.
  • Conflitto tra Etiopia e Eritrea: conflitto in corso tra Etiopia ed Eritrea iniziato nel 1998. I due paesi hanno combattuto una guerra di confine nel 1998-2000, che si è conclusa con un cessate il fuoco. Tuttavia, le tensioni tra i due paesi sono rimaste elevate e nel 2020 è ripreso il conflitto.
  • Conflitto in Yemen: guerra civile in corso nello Yemen iniziata nel 2015. Il conflitto vede contrapposti la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e il governo yemenita riconosciuto dall’ONU, da un lato, e i ribelli Houthi, sostenuti dall’Iran, dall’altro. La guerra ha causato una grave crisi umanitaria, con milioni di persone in stato di bisogno.
  • Conflitto in Siria: guerra civile in corso in Siria iniziata nel 2011. Il conflitto vede contrapposti il governo siriano, sostenuto dalla Russia e dall’Iran, da un lato, e diverse fazioni ribelli, sostenute da diversi paesi, tra cui Stati Uniti e Turchia, dall’altro. La guerra ha causato la morte di centinaia di migliaia di persone e la fuga di milioni di siriani dalle loro case.
  • Conflitto in Myanmar: crisi politica in corso in Myanmar iniziata nel 2021. Il colpo di stato militare del 1° febbraio 2021 ha portato alla destituzione del governo civile guidato da Aung San Suu Kyi. Il colpo di stato ha scatenato proteste di massa, che sono state represse nel sangue dall’esercito.
  • Conflitto in Afghanistan: guerra civile in corso in Afghanistan iniziata nel 2021. Il ritiro delle forze statunitensi e della NATO dall’Afghanistan nel 2021 ha portato alla caduta del governo afghano e al ritorno al potere dei talebani. Il ritorno al potere dei talebani ha portato a una serie di violazioni dei diritti umani, in particolare nei confronti delle donne e delle ragazze.
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Oltre a questi conflitti, ci sono anche una serie di altri conflitti minori in corso in diverse parti del mondo, tra cui:

  • Conflitto in Libia: guerra civile in corso in Libia iniziata nel 2011. Il conflitto vede contrapposti il governo di unità nazionale, riconosciuto dall’ONU, da un lato, e le milizie di Khalifa Haftar, dall’altro.
  • Conflitto in Somalia: guerra civile in corso in Somalia iniziata nel 1991. Il conflitto vede contrapposti il governo federale somalo, sostenuto dalla comunità internazionale, da un lato, e diverse fazioni ribelli, dall’altro.
  • Conflitto in Mali: conflitto in corso in Mali iniziato nel 2012. Il conflitto vede contrapposti il governo maliano, sostenuto dalla comunità internazionale, da un lato, e i gruppi jihadisti, dall’altro.
  • Conflitto in Burkina Faso: conflitto in corso in Burkina Faso iniziato nel 2015. Il conflitto vede contrapposti il governo burkinabé, sostenuto dalla comunità internazionale, da un lato, e i gruppi jihadisti, dall’altro.
  • Conflitto in Niger: conflitto in corso in Niger iniziato nel 2015. Il conflitto vede contrapposti il governo nigerino, sostenuto dalla comunità internazionale, da un lato, e i gruppi jihadisti, dall’altro.
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Conflitto tra Israele e Hamas in Palestina.

Il conflitto è iniziato il 7 ottobre 2023, quando Hamas ha lanciato un attacco missilistico contro Israele seguitao da un incursione terroristica in terrirtotio isrealiano con l’uccisione di centinaia di civili compresi bambini e donne ed il rapimento di qualche centinaio di persone che stavano partecipando ad un concerto e altrettante che si trovavano in due Comunità (Kibbutz)  vicine al confine. Israele ha risposto con una controffensiva aerea e terrestre, che ha causato la morte di altrettante migliaia di persone, tra cui civili, nella striscia di Gaza. Il conflitto è ancora in corso, ma ci sono segnali di un possibile cessate il fuoco.

Il conflitto tra Israele e Hamas è il risultato di un conflitto più ampio tra Israele e Palestina, che dura da decenni. Da quando gli inglesi dopo la seconda guerra mondiale hanno abbandonato i territori dopo averli promessi sia alle comunità arabe che ebraiche. Il conflitto è causato da una serie di fattori, tra cui la disputa sul territorio, l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, e la violenza dei gruppi militanti palestinesi.

Il conflitto ha un impatto devastante sulla popolazione civile di entrambi i lati. In Israele, le persone vivono nella paura degli attacchi missilistici di Hamas. A Gaza, la popolazione è sottoposta a un blocco israeliano che rende difficile l’accesso a cibo, acqua e medicine.

Il conflitto è anche un ostacolo alla pace in Medio Oriente. Il processo di pace tra Israele e Palestina è in stallo da anni, e il conflitto tra Israele e Hamas rende più difficile trovare una soluzione pacifica.

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