Il linguaggio nascosto della nevrosi
Introduzione: la domanda che non smette di bussare

Oggi voglio farvi conoscere un po’ Jung, uno
dei grandi geni e maestri del secolo scorso.
C’è una domanda che ci accompagna da sempre, dalle prime forme di filosofia fino alle sedute di psicoterapia contemporanea: perché soffriamo?
La sofferenza è molto di più di una semplice sensazione spiacevole che vorremmo evitare. Intanto certo è importante partire dal fatto che è una sensazione. Qualcosa che ci sconvolge, dis-regola il nostro stato psicofisico, che vorremmo sparisse subito e sopratutto ci lascia una percezione profonda di mancanza di fiducia nel nostro corpo ed in noi stessi. Si potrebbe definire un enigma che attraversa la nostra vita e ci costringe a fermarci, a interrogarci, a cambiare.
I miti antichi la raffiguravano come destino inevitabile (pensiamo alla tragedia greca), le religioni come via di purificazione o prova spirituale, la prova estrema di Gesù sulla croce. Per il Cristianesimo è fonte (mezzo) di salvezza, la filosofia come condizione della libertà e della coscienza. La psicologia moderna, infine, l’ha interpretata come segnale di un conflitto interiore irrisolto, come linguaggio del nostro inconscio, le nuove discipline sulla de-traumatizzazione, come l’attivazione di una memoria traumatica che scaturisce in un pattern somatopsichico
Il filosofo e psicoanalista Carl Gustav Jung ha dedicato gran parte del suo lavoro a questa domanda. Per lui la sofferenza, quando non distrugge, può diventare un varco verso la trasformazione. Ma per accedere a quel varco dobbiamo imparare a leggere il suo linguaggio nascosto: il linguaggio della nevrosi, dei sintomi, dei sogni, delle paure che ci abitano. Jung aveva intuito ciò che oggi è una certezza, il nostro cervello è una macchina narrativa, sviluppa una funzione, la mente per raccontarci spiegazioni, è un cantastorie. Tutto quello che accade nel corpo, lui, deve darci immediatamente un significato mediante pensieri che spieghino l’accaduto, per un non perdere la propria autorevolezza, la percezione che la nostra identità, ciò che noi siamo dipenda esclusivamente da Lei, la mente (intelletto per Kant). La mente è la nostra salvezza, mediante i pensieri ci aiuta a tenere in vita il nostro corpo, nell’equilibrio costante della relazione con l’ambiente e con gli altri simili, ma può diventare anche il nostro peggior carceriere, producendo racconti che alimentano in un loop le nostre nevrosi.
1. Cos’è la nevrosi?
La parola “nevrosi” deriva dal greco neuron (nervo) e osis (malattia, alterazione). In senso clinico, indica un disturbo psichico che non compromette il contatto con la realtà (come avviene invece nella psicosi), ma che provoca sofferenza interna, ansia, ossessioni, sintomi fisici senza una causa organica evidente.
Oggi il termine è meno usato in psichiatria, sostituito da categorie più specifiche (disturbi d’ansia, ossessivo-compulsivi, somatoformi, ecc.), ma rimane fondamentale nel linguaggio psicoanalitico e filosofico.
Per Jung, la nevrosi non è una “malattia da curare”, ma un messaggio dell’anima. È il segno che qualcosa dentro di noi non è integrato, che viviamo in squilibrio tra ciò che siamo davvero e ciò che vorremmo (o crediamo di dover) essere.
2. Il concetto di ombra in Jung
Uno degli apporti più rivoluzionari di Jung è il concetto di ombra.
L’ombra è l’insieme di tutti quegli aspetti della nostra psiche che rifiutiamo di vedere, perché li giudichiamo inaccettabili, vergognosi, minacciosi.
Possono essere tratti negativi: aggressività, invidia, egoismo.
Ma anche potenzialità positive che non riconosciamo: creatività, sensualità, forza, libertà.
I tratti negativi, lo sono in quanto mettono in discussione la nostra natura sociale e quindi diventano pericolosi perché eterodistruttivi ed autodistruttivi. Le neuroscienze contemporanee hanno dimostrato che questi in realtà sono delle reazioni automatiche che si manifestano a causa di disrelogazioni corporee, dovute a memorie traumatiche. Il problema è che “il dolore acceca la mente” come diceva il Buddha o se preferite, il protagonista del film Dune, nel vero senso della parola: spegne i lobi frontali del cervello, con moltissimi funzioni fondamentali alla relazione con gli altri, alla percezione di giusto e sbagliato, al ragionamento ecc. https://it.wikipedia.org/wiki/Lobo_frontale
Quando non vogliamo affrontare l’ombra, essa si manifesta attraverso sintomi nevrotici, sogni perturbanti, relazioni complicate, ansie senza oggetto. In altre parole: la sofferenza è il modo in cui l’ombra ci chiede di essere vista.
Jung scriveva: “Non si diventa illuminati immaginando figure di luce, ma rendendo consapevole l’oscurità.”
3. La sofferenza come linguaggio
Ogni sintomo è un simbolo.
L’ansia che ci blocca, il panico improvviso, l’insonnia che ci tiene svegli, non sono semplici “disturbi” da eliminare. Sono parole del corpo e dell’anima. perché sono memorie sepolti dei nostri traumi ed è attraverso di essi che noi abbiamo costruito l’universo di senso della nostra vita e la nostra personalità
La sofferenza parla una lingua antica, fatta di immagini, emozioni, archetipi.
Un attacco di panico, ad esempio, può essere la voce interiore che grida: “Stai vivendo una vita che non è la tua!” o quel bambino non è stato semplicemente abbracciato e calmato di fronte all prima volta che ha provato paura e si è sentito solo, in mille pezzi di fronte allo sconosciuto del mondo
L’insonnia può sussurrare: “C’è un pensiero che rimuovi di giorno, ma che ti cerca di notte”.
L’ansia cronica può dirci: “Stai correndo per soddisfare aspettative che non ti appartengono”.
Se smettiamo di considerare la sofferenza come un “errore da correggere” e iniziamo a vederla come un messaggio da decifrare, allora essa diventa occasione di conoscenza.
4. Le radici archetipiche del dolore
I miti e le fiabe ci insegnano che la sofferenza è parte del viaggio umano:
Prometeo che viene incatenato e tormentato dall’aquila rappresenta la condanna della conoscenza non integrata, probabilmente non finalizzata ad uno scopo evolutivo.
Orfeo che perde Euridice ci ricorda che l’amore e il desiderio sono sempre intrecciati alla perdita. Desidero profondamente ciò che non credo di possedere, ciò che non credo di essere (Lacan) nel mio parlarvi c’è ad esempio il desiderio di salvarci dall’estinzione e diventare figlio di Dio, come fece l’uomo Gesù
Chirone, il centauro ferito e immortale, diventa simbolo dell’“eroe ferito” che guarisce gli altri attraverso la propria ferita. di nuovo la salvezza eterna.
Ogni mito parla della nostra interiorità. La nevrosi non è altro che il mito personale che stiamo recitando senza rendercene conto.
5. Neuroscienze e psicologia: il corpo che parla
Le neuroscienze contemporanee, con autori come Antonio Damasio e Giacomo Rizzolatti, confermano che le emozioni non sono optional, ma radici della coscienza.
Damasio mostra come i marcatori somatici (reazioni corporee inconsce) guidino le nostre decisioni.
Rizzolatti e i neuroni specchio dimostrano che il nostro cervello è strutturalmente empatico: soffriamo perché siamo connessi.
Questo significa che la sofferenza non è un difetto, ma una modalità con cui il cervello e il corpo ci aiutano a ritrovare un equilibrio.
6. Imparare ed allenarsi.
quando percepiamo un segnale di disregolazione, lo sono anche pensieri ossessivi e giudicanti nei confronti di noi stessi e non c’è un reale pericolo di vita immediato, vuol dire che si è attivata una memoria corporea di un trauma, l’amigdala si è attivata, siamo in configurazione allerta. Allora proviamo a non reagire immediatamente, ma iniziamo ad allenare il cervello a notare e non giudicare cosa ci sta accadendo. Osserviamo quello che sta accadendo nel nostro corpo e quali sono i pensieri che che formuliamo nella nostra testa. Questa semplice azione, non è facile da realizzare, ma basta cominciare per innescare un grande cambiamento, come un allenamento in palestra o alla corsa. Così iniziamo a spostare la nostra percezione dalla mente e dalla sua identificazione, a quella parte che invece osserva, il Dio interiore per gli gnostici, il terzo occhio per i buddisti e così via. Ecco perché la sofferenza ci libera, perché ci permette di cominciare il processo di osservazione in modo da distaccarci dalle nostre parti reattive.
7. Perché soffriamo?
Possiamo riassumere:
- Soffriamo quando non viviamo in accordo con la nostra verità.
- Soffriamo quando reprimiamo l’ombra.
- Soffriamo perché siamo esseri narrativi, e senza un senso la vita diventa intollerabile.
- Soffriamo perché siamo connessi, e il dolore dell’altro diventa anche il nostro.
- Soffriamo perché abbiamo tutti dei traumi memorizzati nel nostro corpo che il cervello riattiva e andiamo in allerta, disregolandoci
Ma soprattutto: soffriamo perché la sofferenza è la maestra della trasformazione. Ci porta dove non vorremmo guardare, ma dove si trova il seme della nostra evoluzione.
8. Come dialogare con la sofferenza:
esercizio pratico
Per trasformare la sofferenza da nemico a guida, è necessario imparare ad ascoltarla.
Esercizio: Dialogo con la propria paura
Trova un luogo tranquillo, carta e penna.
Scrivi in alto: “Paura, voglio parlarti.”
Lascia che la tua paura risponda, come se fosse un personaggio. Scrivi senza censura.
Alterna le voci: tu chiedi, la paura risponde.
Continua finché senti emergere un messaggio nuovo.
👉 Questo esercizio aiuta a riconoscere la paura come parte di te, non come nemico esterno. Spesso scoprirai che la paura custodisce una risorsa o un bisogno autentico che hai ignorato.
9. Un cammino di integrazione
Affrontare la nevrosi non significa eliminarla, ma trasformarla in conoscenza.
La guarigione non è assenza di ferite, ma capacità di vivere con esse in modo consapevole.
Il dolore diventa allora iniziazione, la nevrosi diventa linguaggio, e l’ombra diventa alleata.
Conclusione: la ferita come soglia
Alla fine, la domanda “Perché soffriamo?” non trova mai una risposta definitiva, ma ci apre a una consapevolezza: soffriamo perché siamo vivi, perché amiamo, perché desideriamo.
La sofferenza ci spinge a cercare senso, e in quella ricerca scopriamo noi stessi.
Come scriveva Jung: “La nevrosi è spesso il soffrire di un’anima che non ha trovato il suo senso.”